Introduzione

Le fratture della diafisi omerale rappresentano approssimativamente l’1–3% di tutte le fratture. La diafisi omerale si estende dalla superficie prossimale dell’inserzione del gran pettorale alla regione sovracondiloidea. La quasi totalità dei sistemi classificativi oggi disponibili suddivide le fratture della diafisi omerale in fratture del terzo prossimale, medio e distale. Di forma grossolanamente tronco-conica il terzo prossimale, cilindrica il terzo medio e prevalentemente triangolare il terzo distale, queste tre porzioni della diafisi omerale si distinguono l’una dall’altra non tanto per la forma, quanto per le inserzioni muscolari proprie di ciascuna di esse, che condizionano, assieme al meccanismo traumatico, la natura e la patogenesi della frattura.

La natura del trauma, unitamente alla sua sede, condiziona quindi l’espressione morfologica della frattura. Le fratture del terzo prossimale o localizzate superiormente all’inserzione del grande pettorale, si associano a scomposizione in abduzione e rotazione esterna del frammento prossimale conseguente alle forze di trazione esercitate dalla cuffia dei rotatori. Le fratture tra l’inserzione del grande pettorale e l’inserzione del deltoide si caratterizzano, invece, per spostamento prossimale e laterale del frammento distale con adduzione del frammento prossimale e accorciamento generale dell’arto e, infine, le fratture distali all’inserzione del deltoide nel terzo medio, si associano ad abduzione del frammento prossimale. Nel terzo distale la posizione della frattura viene condizionata più che dalle inserzioni muscolari dalle strutture vascolo-nervose che decorrono medialmente alla diafisi e, in particolare, dal decorso del nervo radiale che passa dal terzo medio a quello distale portandosi da mediale a laterale [1] e perforando il setto intermuscolare laterale, punto in cui il nervo giace a contatto diretto con la superficie dell’omero. Questi rapporti hanno una notevole rilevanza clinica nelle fratture longitudinali del terzo distale, chiamate anche fratture di Holstein-Lewis, spesso associate a una lesione o a un intrappolamento del nervo stesso [2].

Classificazione

Come precedentemente sottolineato, la sede di lesione determina la diversa natura della lesione in base alla differente sollecitazione dei gruppi muscolari e, quindi, la differente scomposizione secondaria. Questo principio è alla base della classificazione formulata da Fernandez-Esteve [3] per la valutazione funzionale delle fratture della diafisi omerale.

Più prettamente di tipo anatomico è, invece, la classificazione AO di Müller che fornisce informazioni sul tipo di frattura (semplice, a cuneo, complessa), indicato con codice alfabetico, e sul gruppo (spiroide, obliqua, trasversa, da flessione, pluriframmentaria, segmentata e irregolare), indicato con codice numerico. Le fratture semplici, di tipo A, sono quindi suddivise in spiroidi (A1), oblique (A2) e trasversali (A3). Le fratture a cuneo, di tipo B, sono suddivise in spiroidi (B1), da flessione (B2) e pluriframmentarie (B3). Infine, le fratture complesse, di tipo C, possono presentarsi come fratture spiroidi (C1), segmentate (C2) e irregolari (C3). Le fratture C1 possono esser a loro volta suddivise, in base ai frammenti, in C1.1 se con due frammenti intermedi, in C1.2 se con tre frammenti intermedi e in C1.3 se con più di tre frammenti intermedi. Le fratture C2 comprendono, invece, le fratture C2.1 con frammento segmentario intermedio, le C2.2 con frammento segmentario intermedio e frammenti a cuneo aggiuntivi e le fratture C2.3 con due frammenti segmentari intermedi. Infine, le fratture complesse irregolari comprendono le C3.1 con due o tre frammenti intermedi, le C3.2 con frammenti inferiori ai 5 cm e le C3.3 con frammenti di dimensioni superiori ai 5 cm.

Anche il corretto trattamento delle fratture diafisarie di omero è strettamente dipendente dalla buona gestione dei tessuti molli. Una classificazione delle lesioni di questi deve tener conto di una serie di parametri ed essere di guida al trattamento al fine di ridurre le possibili complicanze. Le classificazioni più comunemente utilizzate sono quelle proposte da Gustilo e Anderson [4, 5] e da Tscherne [6]. Anche l’AO ha sviluppato un sistema classificativo che suddivide le fratture in esposte “O” (open) o chiuse “C” (closed) e in 5 diversi gruppi di gravità.

Questi diversi sistemi classificativi forniscono, nel complesso, importanti informazioni per un corretto inquadramento delle fratture diafisarie di omero e, quindi, per la scelta del trattamento più idoneo.

Trattamento

Mentre la diagnosi di questo tipo di frattura risulta relativamente semplice e non meritevole di una trattazione specifica, altrettanto semplice non risulta invece essere la scelta del corretto trattamento da effettuare; dibattito antico e al contempo attuale, di fatto il trattamento delle fratture diafisarie di omero rappresenta ancora oggi un capitolo della traumatologia di notevole interesse e attualità.

Tra le diverse opzioni di trattamento attualmente disponibili ricordiamo, oltre all’approccio conservativo, l’inchiodamento endomidollare, la sintesi con placca e viti e la sintesi con fissatore esterno. Tutte queste metodiche di trattamento possono associarsi, per le rispettive specificità, a complicanze di varia natura derivanti delle caratteristiche intrinseche della frattura e dalle peculiarità tecniche di ognuna di esse. Le più comuni problematiche comprendono i vizi e i difetti di consolidazione e le lesioni neurovascolari.

Trattamento conservativo

L’approccio conservativo ha rappresentato per anni il gold standard per il trattamento di queste fratture e può rappresentare ancora oggi una valida soluzione nelle fratture diafisarie non associate a esposizione in pazienti che presentino controindicazioni cliniche generali di tipo anestesiologico. Una vascolarizzazione ben rappresentata e un’adeguata copertura muscolare favoriscono la propensione alla guarigione della frattura che, associata a una buona compliance del paziente e a una scrupolosa sorveglianza dell’iter terapeutico da parte dei sanitari, rende conto delle ottime percentuali di guarigione, riportate in letteratura in una forbice che va dal 90 al 99% [2, 7, 8].

Generalmente, il trattamento conservativo classico si avvale, in una fase iniziale, dell’immobilizzazione in apparecchio gessato pendente (che sfrutta l’azione gravitaria del peso per l’allineamento della frattura) e, in una seconda fase, dell’immobilizzazione con tutore funzionale reggibraccio o a valva. A seconda del tipo e della sede della frattura l’immobilizzazione in apparecchio gessato può essere sostituita già dalle fasi iniziali con l’utilizzo di un tutore.

Trattamento chirurgico

Per il trattamento delle fratture diafisarie di omero, la scelta dell’approccio chirurgico, del tipo di impianto e della tecnica di sintesi è strettamente dipendente da diverse variabili e, in particolare, dalla sede e dalla morfologia della frattura, dalla presenza di lesioni associate e dall’esperienza del chirurgo.

La pianificazione pre-operatoria deve, inoltre, considerare che diversi studi della letteratura mostrano come le strutture muscolari peri-omerali possano sopportare un’angolazione fino a 30° in varismo e un accorciamento di 3 cm senza compromissione di funzionalità o morfologia [9, 10]. Molto meno tollerati sono invece i difetti angolari e, in particolare, l’intrarotazione.

Il trattamento cruento, ormai lo standard nelle fratture diafisarie di omero, trova indicazione assoluta nelle fratture esposte, nei politraumi, nelle fratture omerali bilaterali, nelle fratture omerali con traumatismi omolaterali associati, nei casi di pseudo-artrosi e nelle fratture patologiche che traggano beneficio dal trattamento chirurgico.

Il ripristino della lunghezza, dell’allineamento e della rotazione è essenziale, ma la riduzione anatomica di tutti i frammenti della frattura non è necessaria per il recupero della normale funzionalità dell’arto.

Le metodiche più comunemente utilizzate per il trattamento delle fratture diafisarie di omero comprendono la fissazione esterna, l’osteosintesi con placca e l’inchiodamento endomidollare; ciascuna di queste metodiche si associa a vantaggi e svantaggi.

Indipendentemente dal tipo di tecnica scelta, le manovre di fissazione devono essere sempre le più delicate possibili nei confronti dei tessuti molli e del periostio che circondano la frattura allo scopo di rispettare quanto più possibile la vascolarizzazione esistente.

Fissazione esterna

La fissazione esterna è generalmente indicata nei politraumatizzati, in pazienti con fratture esposte (Gustilo 2 o 3) e, comunque, in tutti quei casi in cui è necessaria una rapida stabilizzazione. I vantaggi della fissazione esterna comprendono la rapidità di esecuzione, la possibilità di effettuare, in caso di esposizione, un accurato curettage delle zone esposte o contaminate ed eseguire la sintesi senza ulteriore contaminazione, oltre alla possibilità, in caso di fratture sovra- o sotto-segmentarie, di estendere la fissazione a quei distretti, ottenendo quindi una buona stabilizzazione anche in presenza di lesioni complesse o pluridistrettuali (Fig. 1a–b).

Fig. 1
figure 1

(a–b) Applicazione di fissatore esterno in politrauma

I rischi principali della fissazione esterna nelle fratture diafisarie di omero sono le lesioni vascolo-nervose durante il posizionamento delle fiches, difetti di consolidazione o malallineamento dei monconi e l’infezione dei tramiti delle fiches [11].

Osteosintesi con placca

La sintesi con placca delle fratture diafisarie dell’omero è stata, prima che i chiodi endomidollari dell’omero diventassero una tecnica ampiamente diffusa, la metodica più largamente utilizzata, in grado di garantire ottimi risultati sia da un punto di vista anatomico che funzionale.

Le placche tradizionali prevedevano una lunghezza tale da permettere la fissazione su almeno sei corticali, o preferibilmente otto, sopra e sotto la rima di frattura. Lo sviluppo di nuovi sistemi ha tuttavia modificato negli anni questa concezione, e ha consentito lo sviluppo di placche a foro misto LCP che consentono, a seconda delle diverse tipologie di frattura e in base alla qualità dell’osso, un molteplice impiego: come placca in compressione tradizionale, come fissatore interno bloccato o eventualmente combinando in parte le metodiche (Fig. 2a–c) [12].

Fig. 2
figure 2

(a, b, c) Paziente femmina, riduzione e sintesi con placca per via posteriore

Il sistema LCP si avvale di placche con 2 tipi di fori che, in base al tipo di frattura, consentono il posizionamento della placca in compressione o in neutralizzazione. Il foro della placca LCP è composto da due parti: una consente il bloccaggio della vite nella placca grazie a un foro dotato di un filetto conico per accogliere la vite con testa di bloccaggio, l’altra parte del foro permette l’introduzione di una vite standard per realizzare, se necessaria, la compressione dinamica tramite l’inserimento in modo eccentrico della vite. Indipendentemente dal tipo di placca utilizzato, la tecnica prevede comunque un’ampia esposizione del focolaio di frattura e ciò, pur garantendo una sintesi stabile, espone al rischio di lesioni iatrogene, infezioni e fallimenti meccanici in ossa osteoporotiche.

L’approccio chirurgico, che può essere antero-laterale, posteriore o, più raramente per il rischio di lesioni iatrogene neuro-vascolari antero-mediale, è condizionato dall’esperienza del chirurgo, ma soprattutto dalla tipologia di frattura.

Inchiodamento endomidollare

L’inchiodamento endomidollare, modalità di fissazione poco usata in passato, si è progressivamente diffuso negli anni come metodica di uso comune nelle fratture diafisarie omerali chiuse e nelle fratture esposte (Gustilo 1) trattate in urgenza.

I due modelli maggiormente rappresentativi di questo tipo di sintesi sono l’inchiodamento elastico e quello rigido bloccato:

  • l’inchiodamento elastico si avvale di mezzi di sintesi flessibili, introdotti in genere per via retrograda e che si dispongono in modo divergente a livello endomidollare, creando una disposizione che aiuta a mantenere l’allineamento assiale, la lunghezza e la rotazione in precedenza ripristinati dal chirurgo.

    Negli anni sono stati utilizzati vari chiodi, dagli Ender ai Rush fino ad arrivare al sistema di Marchetti-Vicenzi che, in parte, minimizza i difetti tipici di questi sistemi, quali la tendenza alla stabilizzazione in deformità, lo scarso controllo rotazionale e del fenomeno di accorciamento diafisario [10].

  • l’inchiodamento bloccato si avvale, invece, di sistemi più rigidi dei precedenti aventi possibilità di bloccaggio. Alcuni chiodi consentono un posizionamento sia per via anterograda che retrograda, altri invece sono vincolati a una sola via. Alcuni chiodi di maggior diametro necessitano di alesaggio e questo determina, da un lato, una maggiore stabilità riducendo, al contempo, le possibilità di incarceramento e, dall’altro, un incremento dell’effetto termico a livello del focolaio di frattura, la possibilità di microembolie, infezioni e sanguinamenti [10].

L’inchiodamento per via anterograda prevede un’incisione delle fibre del sovraspinato ad opportuna distanza dalla zona inserzionale, scarsamente vascolarizzata, al fine di evitare complicanze funzionali [13, 14]. È inoltre utile ricordare come, nell’introduzione anterograda del chiodo, una distanza di almeno 4 mm dalla superficie articolare possa prevenire i fenomeni di “impingement” sub-acromiale determinati dalla migrazione prossimale dell’impianto [10].

Nell’inchiodamento per via retrograda, invece, l’accesso attraverso la corticale posteriore aiuta a evitare le fratture iatrogene, una delle più frequenti complicanze di questa tecnica (Fig. 3a–c) [15].

Fig. 3
figure 3

(a, b, c) Paziente maschio, 18 anni, osteosintesi con chiodo bloccato per via retrograda, controllo a 1 anno e post-rimozione

Un ulteriore aspetto distintivo è caratterizzato dai sistemi di bloccaggio, in quanto alcuni chiodi consentono un blocco strumentario-guidato che può essere statico, dinamico o combinato, altri invece non consentono questo tipo di scelta. Nel bloccaggio prossimale, la posizione e la lunghezza della vite vanno ponderate tenendo conto del decorso del nervo ascellare; nel blocco distale, che solitamente avviene dalla superficie volare alla dorsale, bisogna porre attenzione a non interferire col nervo radiale che, a questo livello, si porta antero-medialmente [16]. Qualora nel blocco distale si utilizzi la via antero-mediale, il nervo radiale risulta la struttura più importante da rispettare.

Discussione

A causa dell’ampio arco di movimento dell’articolazione gleno-omerale, le consolidazioni con lieve-moderato vizio di allineamento della diafisi omerale sono ben tollerate e funzionalmente non associate a particolari problematiche [7]. Ciò rende conto dell’ampio utilizzo, in passato, e degli ottimi risultati che è possibile perseguire con il solo trattamento conservativo. Tuttavia, indicazioni assolute al trattamento chirurgico sono rappresentate dalle fratture esposte, fratture con associate lesioni vascolari, fratture multiple diafisarie, fratture con traumatismi omolaterali associati (gomito fluttuante o frattura di polso o mano), pseudoartrosi o alcune fratture patologiche. Indicazioni relative al trattamento chirurgico sono, invece, rappresentate da fratture instabili trasversali, oblique corte, spiroidi e quelle con terzo frammento (a farfalla), ossia quelle fratture che, se avviate a un trattamento conservativo, possono esitare in vizi di consolidazione o dare luogo a scomposizioni secondarie [10].

Diversi studi comparativi [12, 1719] hanno confrontato i risultati clinici e funzionali ottenuti con le diverse opzioni di trattamento oggi disponibili per la gestione delle fratture diafisarie dell’omero, riportando dei risultati pressoché sovrapponibili. Pertanto, ancora oggi la scelta del corretto trattamento di una frattura diafisaria di omero francamente chirurgica può prestarsi a diverse interpretazione e per questo a differenti approcci chirurgici.

E se il trattamento con fissatore esterno viene generalmente riservato ai politraumi e alle fratture complesse esposte, e così come la necessità di esplorare un focolaio di frattura per intervenire su lesioni neuro-vascolari impone quasi sempre l’utilizzo di una placca, nei restanti casi la scelta tra un inchiodamento endomidollare o l’utilizzo di una placca in compressione dipende fondamentalmente dall’esperienza del chirurgo e dalla sua confidenza con ciascuno di questi mezzi di sintesi.

Conclusioni

Il trattamento delle fratture diafisarie di omero è attualmente un capitolo della traumatologia di notevole interesse e in continua evoluzione che si avvale dei nuovi concetti di riduzione e sintesi, basati sempre più, rispetto al passato, sulla migliore comprensione della biologia della riparazione delle fratture e sull’importante ruolo dei tessuti molli nel processo di guarigione.

Le fratture diafisarie dell’omero sono generalmente il risultato, nel soggetto giovane, di un trauma diretto ad alta energia o di forze rotazionali a bassa energia. Esistono diverse possibilità terapeutiche, ciascuna associata a specifici vantaggi e svantaggi e in grado di garantire un’ottima guarigione con eccellente ripresa funzionale se eseguite con la giusta indicazione e con un corretto gesto chirurgico.