Introduzione

Le fratture della diafisi femorale sono lesioni di sempre maggiore riscontro. Possono essere secondarie a traumi a bassa energia, più comuni nei bambini e negli anziani, ovvero ad alta energia, più tipiche della popolazione giovane, associate a politrauma e gravate da significativa morbilità, mortalità e insidiose complicanze precoci e tardive.

L’incidenza di queste lesioni varia dai 19 casi per 100.000 abitanti/anno, riscontrati nel 1988, ai 21 casi ogni 100.000 abitanti/anno nel 2013 [1].

La diagnosi di frattura diafisaria di femore è generalmente semplice e sono quasi sempre sufficienti esami radiografici standard, purché comprensivi di tutto il distretto, dato che l’incidenza di lesioni associate del collo femorale omolaterale è del 2,5–5% e un ritardo diagnostico, pari al 19–31% dei casi, si riscontra per radiografie iniziali inappropriate [2].

Tra le varie classificazioni esiste discreto consenso per quella di Winquist e Hansen (1984), che considera il grado di comminuzione e l’instabilità della frattura parametrati con una scala a punteggio crescente da 1 a 5 ma è più diffusamente accettata la classificazione AO/ASIF foriera di informazioni prognostiche e terapeutiche.

Nelle fratture esposte è di ausilio la classificazione di Gustilo e quella di Tscherne, più focalizzata sul danno dei tessuti molli.

Nell’inquadramento del paziente politraumatizzato, un utile contributo è quello di Pape [3] del 2002, che ha individuato 4 gradi per la valutazione delle lesioni associate e la conseguente strategia di trattamento.

Discussione

Il timing di trattamento è un aspetto molto dibattuto in letteratura. Nelle fratture isolate non sono riportate significative differenze nei casi trattati in urgenza o entro le 72 ore in relazione a complicanze polmonari o durata della degenza, mentre tali complicanze aumentano nei pazienti trattati oltre le 72 ore [4]. Il timing della fissazione definitiva delle fratture della diafisi femorale in pazienti con lesioni multiple ha suscitato un elevato interesse per diversi decenni. Inizialmente questi pazienti venivano considerati “too sick to operate” e stabilizzati con metodiche incruente, con la conseguenza di una lunga ospedalizzazione e inaccettabili complicanze. Negli anni 1970 e 1980, la “early total care” (ETC) si è affermata quale standard di trattamento introducendo la stabilizzazione precoce e definitiva delle lesioni scheletriche diafisarie. A supporto, numerosi studi dimostrarono che il trattamento precoce riduceva le complicanze polmonari, la mortalità e la durata del ricovero ospedaliero (LOS) [5]. Bone [6] consacrò l’uso dell’ETC; tuttavia, con la diffusione dell’ETC emerse un inatteso aumento della sindrome da distress respiratorio e di insufficienza multiorgano [7]. L’applicazione dell’ETC fu criticata in presenza di lesioni associate del torace o del cranio. L’aumento della morbilità, dopo un intervento chirurgico precoce in questi pazienti, venne spiegata con l’ipotesi del second hit da sommare al first hit secondario al trauma primitivo [8]. Il second hit è associato a picchi di TNF alfa, IL6 e IL10, ma la produzione di citochine pro infiammatorie risulta proporzionale all’entità del danno iniziale e dell’ipossia. Il picco di IL6 si manifesta entro 2 ore dall’inchiodamento.

Una risposta infiammatoria imponente ha come epifenomeno finale una sindrome da distress respiratorio (ARDS) o insufficienza multipla d’organo (MOF) [7].

L’incidenza di Acute Lung Injury (ALI) e ARDS non è ben codificata in letteratura, anche se è evidente che una più elevata percentuale si riscontra nei pazienti con gravi lesioni toraciche associate. La precoce insorgenza di ALI è secondaria a perdita di liquidi con edema polmonare e infiltrazione cellulare del parenchima che, con la vasocostrizione da microembolia capillare, sono responsabili dell’ipossiemia [9].

Nel tentativo di minimizzare i potenziali danni dell’ETC, Scalea [10] propose il Damage Control in Ortopedia (DCO). I fautori del DCO sostengono che la fissazione esterna offre i vantaggi della stabilizzazione scheletrica precoce, ma limita il second hit della chirurgia, riducendo la perdita ematica e il tempo di anestesia [11, 12]. Pape ha dimostrato che nel caso di DCO e successiva conversione non si riscontravano picchi di IL6; altri autori, per contro, testimoniano livelli più bassi di IL6 rispetto al preoperatorio, correlando l’aspetto a fattori infiammatori post traumatici, compreso l’intervento chirurgico.

Numerosi studi hanno indagato il complesso tema della gestione delle “grandi fratture” nei pazienti politraumatizzati. Non è stato raggiunto un consenso unanime in quanto sono numerosi gli studi contrari [10, 11] o favorevoli [6] all’ETC nei traumi gravi. I tassi di complicanze riportati sono differenti tra i diversi Centri e prescindono da DCO o ETC, suggerendo una genesi a più fattori anche organizzativi [13, 14]. In quest’ottica, un recente studio ha invece mostrato risultati sovrapponibili tra un centro traumatologico americano e uno europeo supportato dall’applicazione di principi organizzativi e operativi analoghi [15]. Revisioni sistematiche [16, 17], effettuate nel passato per determinare i tempi di trattamento adeguati della frattura del femore in pazienti con lesioni multiple, concludevano che l’evidenza non supportava una strategia specifica. Da allora, uno studio randomizzato-prospettico [18, 19] e numerosi altri studi retrospettivi sono stati pubblicati, nonché una più recente revisione sistematica [20].

In ogni caso, la letteratura moderna sostiene il trattamento precoce definitivo per la maggior parte dei pazienti politraumatizzati, con l’eccezione per quelli con lesioni addominali gravi che, invece, necessitano di DCO [2124] per un aumentato rischio di mortalità, ARDS e altre complicanze polmonari dovute all’emorragia massiva associata [25, 26].

Il trattamento razionale di queste fratture è riconducibile a Kuntscher, che ha reso popolare l’inchiodamento endomidollare dapprima non alesato e successivamente alesato, con buoni risultati funzionali ed elevati tassi di guarigione. I concetti di Kuntscher sviluppati e migliorati, negli anni ’80 condussero all’adozione dei chiodi bloccati che, grazie al miglior controllo di lunghezza e rotazione, hanno consentito di ampliare le indicazioni a tutti i tipi di fratture diafisarie, prossimali e distali e alle fratture comminute, rendendo inutile il perfetto contatto con le pareti del canale midollare. L’inchiodamento a cielo chiuso offre il vantaggio biologico rappresentato dalla salvaguardia dell’ematoma di frattura e del periostio; inoltre, il materiale dell’alesaggio, qualora eseguito, apporta stimoli osteoinduttivi e osteoconduttivi nel sito di frattura [27].

La diafisi femorale è vascolarizzata attraverso un’unica arteria nutritizia che penetra la corticale nell’area della linea aspra, da dove si dirama nelle arterie midollari del canale deputate all’irrorazione dei due terzi della corticale dell’osso diafisario [28]. L’alesaggio danneggia l’apporto di sangue endostale che si ristabilisce, comunque, in 8–12 settimane nell’interstizio tra impianto e osso, a fronte di un aumento del flusso periostale del focolaio di frattura. Il non alesaggio risulta meno aggressivo sulla vascolarizzazione endostale, per quanto detto vantaggio sia transitorio, poiché a 12 settimane non si riscontrano differenze rispetto all’alesaggio [29].

Una minore perdita ematica intraoperatoria e un ridotto tempo chirurgico sono stati osservati con i chiodi non alesati, e ciò può rivelarsi vantaggioso nei politraumatizzati per la necessità di interventi più rapidi e ridotto sanguinamento, oppure nei pazienti che, a vario titolo, rifiutano le trasfusioni.

L’alesaggio del canale midollare è stato negli anni uno degli argomenti più dibattuti, poiché correlato con la temibile embolia grassosa. L’ecografia transesofagea intraoperatoria ha documentato una diretta correlazione tra picchi di pressione prodotti dall’alesaggio e la comparsa di emboli nell’atrio destro. Detto fenomeno non è esclusivo, poiché rilevabile anche con l’introduzione di chiodi non alesati [27, 30]. Le preoccupazioni riguardanti l’embolia grassosa, l’ARDS e le morti improvvise intraoperatorie hanno indotto discussioni circa i reali benefici dell’alesaggio rispetto alle potenziali complicanze della metodica, soprattutto nei pazienti politraumatizzati a maggior rischio [31].

Tra gli altri, uno studio prospettico randomizzato della Società Ortopedica Canadese, dimostra che non c’è differenza nell’incidenza di ARDS tra chiodi alesati e non alesati. Vari autori [13, 32] hanno comunque evidenziato l’importanza dell’attivazione del sistema infiammatorio dopo un trauma e il ruolo dei mediatori pro-infiammatori, studiandoli in relazione all’alesaggio del canale midollare. È la gravità del trauma toracico associato la vera concausa delle complicanze polmonari, mentre risulta marginale la metodica di inchiodamento [13].

Per contro, l’associazione di traumi toracici o cranici non controindica in maniera assoluta una precoce fissazione della frattura [8].

Molte esperienze testimoniano buoni risultati con l’inchiodamento non alesato [32, 33], ma studi prospettici randomizzati di confronto tra le metodiche affermano che l’inchiodamento endomidollare con alesaggio costituisce il gold standard nel trattamento delle fratture diafisarie di femore, poiché gravato da un minore percentuale di complicanze a fronte di un’elevata probabilità di guarigione [13, 31, 34].

Anche nel politraumatizzato, se emodinamicamente stabile, con singola frattura di femore e pur in presenza di lesioni associate che non richiedano tempi lunghi di chirurgia, il trattamento precoce con il chiodo endomidollare consente di stabilizzare la frattura, ridurre il sanguinamento e gestire al meglio il paziente [34].

Le fratture esposte Gustilo I–II, ma anche IIIA, possono essere trattate precocemente, entro le 6–8 ore dall’evento, con chiodo endomidollare se le condizioni generali del paziente lo consentono [35].

Considerati dei classici, i lavori di Brumback [3638] rimarcano che il chiodo endomidollare alesato e bloccato staticamente è il gold standard nel trattamento di tutte le fratture diafisarie di femore, consentendo la consolidazione nel 98% dei casi, e che la dinamizzazione del chiodo durante il periodo di guarigione della frattura non è generalmente necessaria. Il bloccaggio dinamico del chiodo andrebbe riservato solo alle fratture dell’istmo trasverse o oblique corte con comminuzione tipo I o II di Winquist. Quello statico, infatti, non interferisce con il processo di guarigione della frattura per fenomeni di stress-shielding, ma assicura un’ottima stabilità meccanica. Sono trascurabili rifratture o nuove fratture nelle zone prossimali o distali dei fori di bloccaggio, dopo la rimozione dell’impianto.

L’approccio chirurgico alla riduzione è ancora controverso, in particolare per quanto attiene l’apertura del focolaio. Alcuni autori rilevano un tasso di complicanze sovrapponibile fra le tecniche a cielo aperto versus chiuso; tuttavia, Rokkanen [39] sostenne che il gold standard è rappresentato dalla riduzione a cielo chiuso per indubbi e noti vantaggi biologici, e numerosi studi successivi confermano questa scelta, pur considerando la possibilità di apertura del focolaio in caso di riduzioni difficili o inaccettabili o la necessità di guadagnare tempo nei pazienti a rischio [40].

Gli accessi alla frattura possono essere anche mininvasivi, ridotti all’essenziale, per ottenere la riduzione desiderata [41].

Anche l’adozione del decubito laterale senza trazione può essere associata con tecniche mininvasive e consente di trattare tutti i tipi di frattura eccetto la Winquist IV [42].

Le pubblicazioni del gruppo AO e di numerosi autori hanno descritto e reso popolare già dagli anni ’60 la tecnica di osteosintesi con placca in compressione anche nelle fratture diafisarie del femore. Posizionata a cielo aperto e con tecnica corretta, è in grado di garantire una stabilità assoluta alla frattura. Attualmente, l’osteosintesi con placca occupa un ruolo secondario nel trattamento di queste fratture e, in particolare, trova spazio nelle fratture comminute, eventualmente con utilizzo di un innesto osseo, [50] o nelle fratture diafisarie in presenza di stelo protesico ancora stabile.

La criticità biologica insita nell’uso della placche è rappresentata dal rischio di devitalizzazione della diafisi per l’apertura del focolaio, e ciò comporta un allungamento dei tempi di guarigione e un elevato rischio di complicanze, quali mobilizzazione o rottura degli impianti e pseudoartrosi.

Episodi di rifrattura dopo la rimozione della placca ad avvenuta consolidazione contribuirono a raffreddare gli entusiasmi iniziali. Dal punto di vista biomeccanico, la placca assorbendo gli stress induce nell’osso sottostante il fenomeno dello “stress shielding” con osteoporosi localizzata e assume una posizione svantaggiosa rispetto al chiodo endomidollare perché collocata eccentricamente sulla diafisi femorale.

Le placche hanno un ruolo preminente in presenza di fratture contemporanee della diafisi e dell’estremo prossimale o distale del femore o associate a gravi lesioni arteriose.

Alcuni autori propongono anche in queste fattispecie il trattamento con chiodo retrogrado o anterogrado con buoni risultati [43, 44].

Un’interessante opzione per indubbi vantaggi biologici è rappresentata dalla metodica “bridge plating”, utilizzata nelle fratture comminute chiuse nell’adulto e nel bambino dove, peraltro, non è eseguibile una compressione. È un approccio mininvasivo (MIPO), tecnicamente impegnativo per le difficoltà di raggiungere un’ottimale riduzione indiretta [45].

Conclusioni

L’inchiodamento endomidollare è il metodo di sintesi universalmente accettato nel trattamento delle fratture diafisarie del femore [46].

Con la tecnica dell’inchiodamento endomidollare bloccato, la letteratura EBM riporta tassi di guarigione del 98% con un tasso di pseudoartrosi dell’1,7% nel chiodo alesato e del 4,5% in quello non alesato e un tasso pressoché inesistente di malconsolidazioni e trascurabile di infezioni (0,4%) [47].

Nel confronto tra vari tipi di chiodi è dimostrato che quelli a ingresso trocanterico presentano un rischio di malconsolidazione in varo doppio rispetto a quelli con introduzione dalla fossetta del piriforme mentre non esiste differenza alcuna nel dolore trocanterico postoperatorio [48].

Invece, l’inchiodamento retrogrado presenta un rischio doppio di deformità rotazionale >10° e triplo di deformità angolare >5°, come pure un maggior tasso (16%) di accorciamento [49].