Introduzione

La prima segnalazione in età moderna della complicanza “anemia” nell’insufficienza renale cronica risale al 1836, a opera di Richard Bright che, a proposito della nefrite, scrisse: “dopo un po’ di tempo, il salutare colore del volto impallidisce”. Una descrizione più completa dell’anemia renale in pazienti affetti da nefropatia in fase avanzata fu fornita da Sir Robert Christison (1797–1882): “il sangue progressivamente diminuisce nel colore e col passare del tempo si riduce a tal punto da essere meno di un terzo” [1].

Nel 2014 il Ministero della salute, rifacendosi alla classificazione KDOQI (Kidney Disease Outcomes Quality Initiative), nel suo documento di indirizzo [2], definiva la malattia renale cronica (MRC) come “una alterazione funzionale del rene che persiste per più di tre mesi”. Tale patologia, classificata in stadi di crescente gravità, è in progressiva espansione; si prevede possa divenire, infatti, in un prossimo futuro, un rilevante problema di salute pubblica la cui gestione comporterebbe oggettive difficoltà di sostenibilità. Basti pensare che la prevalenza interessa il 13% della popolazione. Anche negli Stati Uniti [3] la MRC (chronic kidney disease, CKD) è stata riconosciuta come una grave emergenza sanitaria, in quanto circa il 20% degli americani presenta alterazione funzionale o strutturale renale con riduzioni variabili del filtrato glomerulare renale (VFG; glomerular filtration ratio, GFR).

La prevalenza della MRC varia in rapporto all’età media della popolazione di riferimento e alle condizioni socio-economiche. L’alterazione funzionale aumenta sia negli anziani sia negli individui affetti da dismetabolismi e patologie del sistema circolatorio; inoltre, le complicanze cardiovascolari nei pazienti con MRC in fase non dialitica incrementano la mortalità fino a 6 volte rispetto a soggetti con funzione renale fisiologica. La riduzione della funzione renale è evidenziabile attraverso la diminuzione del GFR e consente la classificazione della MRC in stadi, in base alla gravità della patologia (Tab. 1) [2]. Tra le complicanze della MRC, l’anemia è una delle più importanti perché presente nella quasi totalità dei casi, con prevalenza e grado di severità che si accentuano con il progredire del danno renale (Fig. 1) [4]. Ne risulta un impatto negativo sulla qualità della vita, direttamente, quando l’anemia è sintomatica, e indirettamente, poiché aumenta il rischio cardiovascolare (CVD); anche la severità e la tipologia della nefropatia (glomerulonefrite, patologie tubulo interstiziali, nefropatia diabetica, sindrome nefrosica, malattie autoimmuni ecc.) condizionano il benessere dei pazienti. Le conseguenze più gravi consistono principalmente in un’incrementata prevalenza della morbilità e della mortalità [5].

Fig. 1
figure 1

Prevalenza dell’anemia in base al GFR (modificata da [4])

Tabella 1 Stadi della malattia renale in base ai valori del filtrato glomerulare (modificata da [2])

Anemia nella MRC

La definizione di anemia è stata oggetto di numerose revisioni nel corso degli anni a opera di differenti organi di governo della salute pubblica e di molteplici Società scientifiche nazionali e internazionali, che ne hanno valutato i diversi aspetti considerandone anche le variabilità razziali e interindividuali.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) [6] definisce “anemia” la diminuzione dei livelli di emoglobina (Hb) a valori inferiori di due deviazioni standard della media dei livelli di Hb rispetto alla media della popolazione normale, corretta per età e sesso; la riduzione di tali valori presuppone l’inizio di approfondimenti diagnostici. Nelle linee guida italiane SIN (Società Italiana di Nefrologia) [7] l’anemia è definita come una riduzione del 20% della concentrazione media normale di Hb, sempre ottimizzata per età e sesso.

Il crescente interesse nella rivalutazione delle definizioni e dei percorsi diagnostici riguardanti l’anemia, come complicanza della malattia renale cronica [3], è dato dal fatto che ne sono affetti, in Italia, il 13% dei pazienti e, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, il 15% dei pazienti con stadio di MRC da 3 a 5.

I vari studi [8, 9] documentano come l’incidenza e la prevalenza di anemia aumentino con la diminuzione della funzionalità renale. È evidente la proporzionalità diretta tra severità del danno renale ed ematocrito, anche se il livello di insufficienza renale cronica (IRC) al quale i pazienti diventano anemici è molto variabile.

Infatti, una diminuzione di Hb al di sotto di 13 g/dl si rileva già allo stadio 3 dell’IRC, con velocità di filtrazione glomerulare (GFR) di 30–59 ml/min e creatininemia di 2–3 mg/dl; agli stadi 4 e 5 di IRC possono rilevarsi valori di Hb inferiori a 12 e/o 11 g/dl, corrispondenti rispettivamente a 15–29 ml/min e <15 ml/min di GFR. Inoltre, in pazienti con comorbilità, quale per esempio il diabete, l’anemia si può riscontrare a valori <45 ml/min di GFR. Secondo l’OMS [6] quasi il 90% dei pazienti con GFR inferiore a 25–30 ml/min presenta criteri diagnostici di anemia.

La causa principale di anemia nella MRC è determinata dalla perdita di una delle più importanti funzioni endocrine del rene, la produzione di eritropoietina (EPO), una glicoproteina con un peso molecolare di 30.500 kd, composta da una singola catena di 193 aa codificata dal gene localizzato sul cromosoma 7 e formato da 5 esoni e 4 introni. La molecola è sintetizzata dalle cellule interstiziali peritubulari ed è fondamentale nella risposta eritropoietica all’ipossia.

La produzione di piccole quantità di EPO (10–30 U/L) stimola, infatti, l’eritropoiesi, in modo da sostituire gli eritrociti persi per senescenza. In presenza di anemia o di ipossia, i livelli di eritropoietina sierica aumentano rapidamente fino a 10.000 U/L. La concentrazione di O2 e l’ossigenazione cellulare regolano, tramite il fattore di trascrizione Hypoxia-inducible factor (HIF-1) eterodimerico (HIF-1\(\alpha \) e HIF-1\(\beta \)), la produzione di EPO.

In presenza di bassa concentrazione ematica di O2, EPO dà inizio alla cascata trasduzionale attivante l’eritropoiesi; quando la stimolazione di EPO è terminata, sono necessari dai 30 ai 60 minuti affinché i fattori di segnalazione tornino ai livelli basali [10].

Il legame di EPO con un suo recettore determina una modifica conformazionale, con conseguente fosforilazione di Janus Kinase 2 (JAK2) a opera di tirosin-kinasi, dando inizio alla trasduzione del segnale per l’eritropoiesi. L’effetto finale produce la fosforilazione e la successiva omodimerizzazione di Stat 5, che quindi può traslocare nel nucleo, attivando i geni preposti all’eritropoiesi. Il risultato consiste nella promozione della mitosi, della differenziazione, della proliferazione e della maturazione, con un’aumentata sopravvivenza dei progenitori e dei precursori eritroidi, delle BFU-E. La progressione delle BFU-E in CFU-E a più alta concentrazione del fattore di trascrizione della linea eritroide (GATA) è mediata da interferone-1 (IF-1) e interleuchina 3 (IL-3) [11].

L’eritropoiesi si manifesta con l’acquisizione sia dei recettori per EPO da parte dei progenitori eritroidi sia dei marker fenotipici degli eritrociti, mentre i reticolociti e gli eritrociti appena formati perdono i recettori per EPO, conservando l’espressione dei marker immunologici fenotipici collegati alla funzione dei globuli rossi. L’attività eritropoietica nei pazienti nefropatici è alterata a causa della scarsa risposta midollare dovuta a insufficiente stimolazione da parte di EPO, inadeguatamente prodotta. La condizione è aggravata da molteplici fattori di natura esogena ed endogena: nel dettaglio, le citochine pro-infiammatorie, quali IL1, IL-6, Tumor Necrosis Factor (TNF), interferone-\(\gamma \) (IFN-\(\gamma \)) peggiorano l’anemia sia attraverso la liberazione di radicali liberi sia riducendo l’espressione dei recettori specifici dell’EPO presenti sui precursori BFU-E e CFU-E [1214].

L’aggravarsi dello stato infiammatorio e l’incremento della produzione di IL-1 e IL-6 attivano la sintesi epatica di epcidina con l’inibizione sia dell’assorbimento del ferro da parte degli enterociti che del rilascio dello stesso dai macrofagi, incidendo negativamente sull’attività eritropoietica e quindi sull’anemia [15, 16]. La stessa epcidina, sovraespressa, in seguito anche all’alterato stato marziale (sovraccarico o carenza), peggiora lo stato anemico per blocco dell’esportazione del ferro dovuto alla fibrosi dell’eritrone per l’iperincrezione di PTH, alla carenza e/o ridotta mobilitazione del Fe dai depositi e al deficit di folati; infine, il sovraccarico di alluminio, nei pazienti sottoposti a dialisi, al pari dello stato infiammatorio e dell’incremento delle tossine uremiche, rende sempre più inefficace la risposta del midollo, con conseguente apoptosi dei precursori eritroidi. Anche l’utilizzo di farmaci (citotossici, immunosoppressori e ACE-inibitori) può comportare un’iporesponsività alla terapia con ESA. Altra causa da considerare, qualora la risposta midollare al trattamento con ESA sia inefficace, è l’aplasia delle cellule della serie rossa (PRCA): una forma rara e grave di anemia trasfusione-dipendente, che si sviluppa, a causa della comparsa di anticorpi anti EPO, in alcuni individui sotto terapia con rhuEPO. Secondo le linee guida europee [17], si può sospettare l’insorgenza di PRCA se, in un paziente trattato da più di 4 settimane con rhuEPO, si verifica un improvviso declino dell’emoglobina di circa 1 g/dl a settimana, o se sono necessarie trasfusioni di 1–2 unità di RBC per settimana al fine di mantenere stabile il livello di Hb. La PRCA è inoltre caratterizzata dalla riduzione dei reticolociti e dalla presenza di un midollo che, pur presentandosi con fisiologica cellularità, rivela una ridotta percentuale di eritroblasti con valori inferiori al 5% rispetto ai valori di riferimento. Il livello di eritropoietina sierica è elevato e può essere rilevata dalla presenza di anticorpi anti-EPO [17].

Il quadro anemico può complicarsi ulteriormente per diverse condizioni quali procedure chirurgiche, ritenzione di sangue nel circuito dialitico, complicanze emorragiche per gli accessi vascolari alla dialisi, emorragie gastrointestinali, emodiluizione nei pazienti con scarsa compliance alla terapia diuretica e, infine, a causa del deficit di acido folico secondario a malnutrizione.

Da quanto evidenziato, la variabilità di dati e fattori che gravitano intorno alla complicanza “anemia” nelle MRC ha indotto tre importanti Organizzazioni Scientifiche Internazionali, la Kidney Disease Improving Global Outcome (KDIGO) [18] nel 2012, le European Best Practice Guidelines (ERBP) [19] nel 2013 e il National Institute for Clinical Excellence (NICE) [20] nel 2015 a effettuare una completa revisione delle definizioni e dei protocolli diagnostico-terapeutici inerenti tale problematica (Tab. 2) [21].

Tabella 2 Le diverse definizioni di anemia tra le linee Guida: Kidney Disease Improving Global Outcome (KDIGO) 2012 [18], European Best Practice Guidelines (ERBP) [19] 2013, National Institute for Clinical Excellence (NICE) 2015 [20] (modificata da [21])

Linee guida e raccomandazioni: differenze di definizioni e protocolli per anemia nella MRC

La proposta formulata nel 2012 [18] dalla KDIGO si basa sulla definizione di anemia fornita dall’OMS [6] e prende in considerazione la variabilità inter-razziale del livello di emoglobina.

L’etnia caucasica, per esempio, presenta un valore di Hb che è di 1–2 g/dl superiore rispetto al valore di Hb presente nell’etnia afro-americana [13]. Differenze simili sono state riscontrate tra le donne americane e asiatiche. Secondo la banca dati Scripp–Kaiser, considerando etnia ed età, il limite inferiore di normalità si attesta su valori di Hb di 13,7 g/dl per gli uomini caucasici di età compresa tra i 20 e i 60 anni e di 13,2 g/dl per gli uomini anziani. Per le donne di tutte le età, il limite di normalità di Hb è di 12,2 g/dl [15].

Le raccomandazioni espresse dalle linee guida ERBP (nel 2013) [19] mirano, invece, date le differenze razziali sopracitate, ad adattare i criteri classificativi dell’anemia, enunciati dalle linee guida KDIGO, alla sola popolazione europea.

Nel 2015, diversamente, il NICE [20] definisce l’anemia nei pazienti affetti da MRC solo in base alle fasce di età: adulti o bambini ≥2 anni con valori di Hb ≤11 g/dl e bambini <2 anni di età con valori di Hb ≤10,5 g/dl.

Le linee guida della KDIGO [18] stabiliscono, inoltre, che il primo obiettivo da raggiungere nei pazienti affetti da MRC è conoscere l’esatta eziologia dell’anemia per applicare il trattamento terapeutico più corretto. A tal fine, raccomandano di eseguire in fase iniziale frequenti controlli per accertare il valore di Hb, dato di riferimento necessario per classificare la gravità dell’anemia in lieve, moderata e severa, per definirla come normocitica/microcitica/macrocitica, in base al volume corpuscolare medio (MCV), e in normocromica/ipocromica/ipercromica, attraverso il valore dell’emoglobina corpuscolare media (MCH). Infine, per valutare l’attività eritropoietica, è fondamentale effettuare la conta assoluta dei reticolociti.

Nella MRC, l’anemia si presenta tipicamente normocromica, normocitica e iporigenerativa da ipoplasia eritroide, con conteggio ridotto dei reticolociti rispetto al grado di severità della stessa e senza interferenze nella leucopoiesi e nella megacariocitopoiesi. Una sopraggiunta carenza o sotto-utilizzazione del ferro, nonché, nei pazienti in dialisi, un accumulo di alluminio possono cambiare il quadro morfologico in anemia microcitica ipocromica, così come una concomitante carenza di folati o di vitamina B12 o un eccesso di ferro possono determinare un’anemia di tipo macrocitico. Anche una sindrome emolitico-uremica può modificare il quadro morfologico dello striscio di sangue periferico con la presenza di schistociti e un aumento dei reticolociti. Il reperto di echinociti, invece, può essere spia della presenza di tossine uremiche e della perossidazione della membrana dei globuli rossi con anticipata emocateresi da parte del sistema reticolo-endoteliale durante il passaggio nella milza.

Il clinico, per impostare una corretta terapia per l’anemia, necessita di una diagnosi eziologica appropriata, in considerazione della patogenesi multifattoriale. Pertanto è indispensabile valutare, oltre all’attività eritropoietica midollare, la carenza di ferro e/o la presenza di uno stato infiammatorio.

Di conseguenza, le linee guida [1820], oltre alla valutazione dell’emocromo completo e della conta assoluta dei reticolociti, raccomandano di effettuare i seguenti test: livello di ferritina sierica, saturazione della transferrina (TSAT), percentuale di eritrociti ipocromici (HRC), contenuto di Hb nei reticolociti (CHr o equivalente) e livelli di vitamina B12 e folati.

Le linee guida indicano anche la frequenza di determinazione del test Hb: ogni anno, in caso di individui con CKD allo stadio 3, 2 volte l’anno per i soggetti in CKD stadio 4–5 non in dialisi (ND), mensilmente nei pazienti con CKD allo stadio 5 in emodialisi (HD).

Terapia con eritropoietina umana ricombinante (rhuEPO) nei pazienti con MRC

Il trattamento dell’anemia nella MRC, per il quale le linee guida prevedono tempi e modi, ha subito un cambiamento radicale con l’utilizzo dell’eritropoietina. Tuttavia, la preoccupazione del clinico verso il paziente nefropatico, trattato con rhuEPO per l’anemia, deriva dal fatto che si può riscontrare una carenza di ferro, sia assoluta che funzionale, tale da rendere inefficace la terapia stessa.

La carenza assoluta è collegata, come sopra citato, a diverse eziologie: stati di malnutrizione e malassorbimento, sanguinamenti gastrointestinali, ritenzione di sangue nel circuito dialitico e frequenti prelievi [22]; nel deficit funzionale, invece, si evidenzia un’attività eritropoietica midollare limitata dall’incapacità di mobilizzare sufficientemente il ferro dai depositi. Deficit funzionali di ferro si riscontrano generalmente nei pazienti in trattamento con rhuEPO, perché la somministrazione di eritropoietina richiede grande disponibilità di ferro [23].

Tale condizione può determinare la necessità di effettuare una terapia con infusione endovenosa (ev) di ferro, non scevra da rischi di complicanze sia a breve che a lungo termine. Quelle a breve termine sono dovute agli effetti tossici dei radicali liberi, in quanto la transferrina non riesce a trasportare l’eccesso di ferro. Ne deriva la formazione di lipoperossidi e depositi marziali insolubili nei tessuti; la conseguente saturazione dei meccanismi che prevengono il danno ossidativo induce l’apoptosi nelle cellule danneggiate. A lungo termine si manifestano complicanze da deficit funzionale dei polimorfonucleati e un’aumentata suscettibilità alle infezioni con danno d’organo (danno tubulare, fibrosi interstiziale e apoptosi delle cellule tubulari). La gravità del quadro clinico è in rapporto all’entità e alla durata del sovraccarico nonché al distretto coinvolto.

Parallelamente allo studio dell’assetto marziale, è fondamentale la valutazione dei valori ottimali di Hb per evitare le note complicanze della terapia con rhuEPO, quali eventi cardiovascolari correlati all’aumento dell’Hb. Si evince, quindi, l’importanza di esaminare e monitorare correttamente i pazienti in corso di terapia con rhuEPO e, se opportuno, di integrare il trattamento con ferro ev per migliorare l’outcome clinico.

Il Laboratorio e la clinica: linee guida e raccomandazioni

La colorazione di Perls, o al blu di Prussia, del ferro midollare è ancora considerata il gold standard per la diagnosi di carenza marziale. Si tratta di un esame di Laboratorio che avviene tramite la valutazione dell’agoaspirato e/o biopsia ossea. L’agoaspirato midollare permette un’osservazione diretta dei sideroblasti e dei macrofagi dell’interstizio midollare [24]. È, quindi, un test altamente specifico, ma non scevro da problematiche di varia natura che ne riducono l’utilizzo: il metodo, infatti, è particolarmente costoso e invasivo e richiede non solo un alto livello di expertise e competenza nello studio della morfologia cellulare del midollo, ma anche una grande perizia nell’applicazione diligente e precisa della tecnologia. A causa di tali limiti, l’esame non è standardizzabile e per questo poco utilizzato [25].

Pertanto, le indagini di laboratorio alternative, indispensabili per valutare l’assetto marziale, sono gli indici biochimici indiretti e i marker ematologici diretti.

Una disamina completa del quadro anemico inizia sempre dalla storia clinica e dall’osservazione obiettiva del paziente e prosegue con eventuali test di approfondimento. Questi ultimi, secondo le linee guida KDIGO del 2012 [18], sono costituiti da: dosaggio sierico della vitamina B12, concentrazioni sieriche e/o intra-eritrocitarie dei folati, test per evidenziare la presenza di emolisi (aptoglobina, LDH, bilirubina, test di Coombs), elettroforesi serica e urinaria (quando possibile), ricerca di sangue occulto nelle feci, PTH, alluminemia (nei pazienti in dialisi).

È da ricordare che le raccomandazioni e le linee guida riguardanti i test da utilizzare per valutare la carenza di ferro, parametro fondamentale per stabilire una corretta ed efficace terapia marziale, sono cambiate nel tempo.

Le differenti raccomandazioni e linee guida sono concordi sulla necessità di esaminare la carenza di ferro, tramite i test della saturazione della transferrina (TSAT), l’analisi della ferritina, della % di eritrociti ipocromici, del contenuto eritrocitario emoglobinico o test equivalente. Le linee guida differiscono nei valori soglia di TSAT e ferritina utilizzati per iniziare eventualmente la terapia con ferro, in base anche allo stadio della MRC e al trattamento dialitico. Le raccomandazioni di KDIGO [18], infatti, suggeriscono di iniziare la terapia marziale quando TSAT è ≤30% e la ferritina è ≤500 ng/ml, indipendentemente dalla fase della MRC. Al contrario, le linee guida ERBP [19] utilizzano complessivamente meno soglie, che differiscono anche per lo stadio della MRC e per l’uso di ESA. Stabiliscono, inoltre, che, in presenza di carenza marziale assoluta (ferritinemia <100 ng/ml) o funzionale (TSAT <20% e ferritinemia >100 ng/ml), la terapia con ESA non va iniziata senza una contemporanea somministrazione di ferro. Le raccomandazioni NICE [20] del 2015 identificano la carenza di ferro con valori di TSAT <20% e di ferritina <100 μg/L, ma avvertono che tali criteri dovrebbero essere utilizzati solo se non può essere misurata la % di eritrociti ipocromici (%Hypo) entro le 6 ore. Un valore >6% di %Hypo identifica meglio i pazienti che, se trattati con terapia marziale per via endovenosa, rispondono in modo ottimale. La combinazione di %Hypo >6% con CHr ≤29 pg, poi, ha mostrato una migliore efficienza nel rilevare la carenza di ferro di circa l’80%, con un netto miglioramento nella sensibilità rispetto alla sola %Hypo; ciò suggerisce che i due test, eseguiti simultaneamente, possono essere considerati complementari. È importante sottolineare che non è possibile basarsi esclusivamente su TSAT o ferritina per stabilire, nei pazienti con anemia in MRC, il livello di carenza marziale, perché il frequente riscontro di uno stato infiammatorio rende difficile valutare la condizione ferro carenziale.

Le indicazioni cliniche e di Laboratorio per valutare e trattare l’anemia sono sintetizzate nelle Tabelle 34.

Tabella 3 Indicazioni secondo LG NICE [20] per la valutazione e il trattamento dell’anemia nel paziente renale secondo clinica e Laboratorio
Tabella 4 Indicazioni secondo le linee guida NICE [20] per il monitoraggio del trattamento dell’anemia in MCR

Nei pazienti in trattamento con ESA, quindi, la terapia con ferro va prescritta per mantenere:

  • la percentuale di globuli rossi ipocromici <6%;

  • il contenuto reticolocitario di Hb >29 pg;

  • TSAT >20% e ferritina >100 μg/L.

Nei pazienti in terapia marziale, i livelli di ferritina non devono superare 800 μg/L e, per evitare che questo avvenga, bisogna ottimizzare il dosaggio quando la ferritina raggiunge i 500 μg/L.

Per impedire il sovraccarico, si devono monitorare le riserve di ferro, misurando la ferritina da 1–3 mesi.

L’uso dei test raccomandati per la diagnosi e il trattamento in questi pazienti, assicurando una maggiore accuratezza diagnostica, aumenta l’efficacia della prescrizione di ferro e migliora l’assistenza dei pazienti.

Caratteristiche dei principali indici ematochimici dell’anemia utilizzati dalle linee guida nei pazienti nefropatici

Utilizzi e limiti

I dosaggi sierici di sideremia, ferritina e TSAT%, nella valutazione dell’assetto marziale, sono gravati da alcune problematiche conosciute da tempo.

Sideremia: fornisce valori di riferimento caratterizzati da una bassa specificità, perché possono essere condizionati dalla variabilità analitica, dal metodo utilizzato, dall’influenza dell’emolisi, dalla variabilità biologica e dal ritmo circadiano [24]. Ampie variazioni giornaliere, fino al 100% nelle 24 ore in soggetti sani e con valori più alti verso sera, possono essere ricondotte anche all’alimentazione. I livelli ematici sono inoltre influenzati da stati patologici quali infezioni, infiammazione e infarto [14]: bassi valori si possono riscontrare in condizioni quali donazione, gravidanza (emodiluizione); alte concentrazioni, invece, sono ascrivibili a ingestione di carne o alla terapia orale con ferro [24, 26]. La variabilità di questi fattori rende il valore della sideremia non raccomandabile nella pratica clinica.

Ferritina: la sua concentrazione sierica è una misura ampiamente utilizzata nella diagnostica come marker affidabile e specifico dei depositi di ferro in soggetti sani. Quando i depositi di ferro si esauriscono, i livelli sierici di ferritina diminuiscono, rendendo tale parametro il marker più precoce di deficit di ferro e la più utile misura singola nell’assetto marziale [24, 27]. Tuttavia la ferritinemia mostra dei limiti dettati dalla variabilità analitica (3,8%) e dalla variabilità biologica intra-individuale (7,5%), responsabili, anche in tale test, di una scarsa specificità diagnostica [28]. In uno studio randomizzato su 157 pazienti emodializzati, il coefficiente di variazione era compreso tra il 25% e il 45% [29]. La concentrazione sierica di ferritina, inoltre, aumenta indipendentemente dai depositi di ferro, laddove siano in corso infiammazioni, infezioni, neoplasie, epatopatie. La ferritina, infatti, avendo anche un ruolo attivo come proteina della fase acuta e marker tumorale, può rivelarsi indicatore insufficiente e fuorviante della carenza marziale. Quindi, bisogna sempre analizzare la condizione del paziente nel caso in cui si prenda in considerazione tale parametro.

TSAT: riflette il ferro trasportato invece di quello di deposito ed è un indicatore dell’apporto del ferro alle sedi di utilizzo (eritrone) [24]. Un valore di TSAT <20% è un segnale sufficientemente affidabile di eritropoiesi sideropenica ed è un utile marcatore per individuare un deficit funzionale di ferro, in cui una bassa TSAT si associa a una ferritinemia fisiologica. La specificità di TSAT, però, è inficiata in tutti i casi di riduzione della transferrina, come può avvenire nel corso di malattie infiammatorie, epatopatia avanzata e malnutrizione [30].

Percentuale di emazie ipocromiche: tra i nuovi parametri eritrocitari forniti dai sincretismi tecnologici dei nuovi analizzatori ematologici, la percentuale di emazie ipocromiche (denominate a seconda dell’analizzatore %HYPO o HYPO-He %; valori di riferimento <2,5%) si è dimostrata utile nella valutazione del deficit funzionale di ferro, in quanto misura l’emoglobina degli eritrociti, spia dell’equilibrio tra ferro ed eritropoiesi, permettendo di stimare la disponibilità di ferro [31]. Inoltre, tramite la TSAT è possibile rilevare a lungo termine (2–4 settimane) la qualità dell’eritropoiesi midollare. Considerando la vita media eritrocitaria di 120 giorni circa, la percentuale di emazie ipocromiche fornisce informazioni su un periodo di alcuni mesi e quindi è un indicatore tardivo di deficit funzionale di ferro. Valori aumentati di %HYPO indicano lo sviluppo di un’eritropoiesi ferro-carente nei dializzati [32] e nei soggetti sani trattati con EPO [33]. Numerosi lavori dimostrano l’utilità di tale parametro per il monitoraggio dello stato marziale e la necessità di supplementazione di ferro nei pazienti dializzati in terapia con EPO [34, 35]. Le linee guida più recenti (NICE 2015) [20] inseriscono questo test tra quelli più significativi per la valutazione dell’anemia di origine renale, proponendo come cut-off diagnostico di deficit marziale un valore di %HYPO >6%, rilevando per il dato un’elevata sensibilità e specificità [22]. Altri studi sottolineano di porre attenzione alle problematiche tecniche (la temperatura e il turnaround time, TAT) relative a questa indagine, indicando la necessità di eseguire il test entro 6 ore dal prelievo.

Contenuto di Hb dei reticolociti: informazioni clinicamente utili sono fornite da analizzatori ematologici di ultima generazione, che si servono di nuovi parametri reticolocitari come la determinazione del contenuto di Hb dei reticolociti, che, pur assumendo un nome diverso a seconda degli analizzatori ematologici utilizzati, non varia il suo significato clinico: Cellular Hemoglobin content reticulocytes (CHr, SIEMENS), He Reticulocyte Hemoglobin Equivalent (RET-He, Sysmex), Mean Cellular Hemoglobin content reticulocytes (MCHr, Abbott), Reticulocyte Hemoglobin Expression (RHE, Mindray) [22, 36, 37].

Il contenuto emoglobinico reticolocitario CHr è il più precoce marker di deficit funzionale di ferro, considerato insieme a %HYPO il gold standard di eritropoiesi ferro-carente. La sua utilità è stata dimostrata nelle anemie da malattie croniche [31] e nella valutazione dello stato del ferro nei dializzati, per la conseguente terapia marziale [38]. Esso si è dimostrato efficace anche nella diagnosi di deficit di ferro in presenza di infiammazione e di anemia da malattia cronica, laddove falliscono i principali parametri biochimici in quanto influenzati dalla risposta in fase acuta [39]. In soggetti sani trattati con EPO si assiste a una precoce e significativa diminuzione di CHr, (espressione di emoglobina reticolocitaria) da deficit funzionale [40]; la terapia con ferro ev abolisce la produzione di reticolociti ipocromici e aumenta la quantità di Hb contenuta nei reticolociti [41]. L’utilizzo di tale indice, per la valutazione dello stato marziale, è limitato in caso di talassemie in corso (per microcitosi su base genetica) e di chemioterapia (per il frequente sviluppo di transitoria eritropoiesi megaloblastica da deficit di folati con aumentato volume reticolocitario medio MCVr).

Frazione dei reticolociti immaturi (IRF): lo studio degli indici reticolocitari permette il riconoscimento precoce di una diseritropoiesi da carenza di ferro e consente, nel contempo, di valutare l’opportunità di un’integrazione con trattamento marziale, evidenziando tempestivamente l’effetto sull’eritrone e fornendo informazioni immediate sull’attività eritropoietica midollare in corso o dopo trattamenti che influenzano la produzione eritrocitaria. Nello specifico l’analisi automatizzata della frazione dei reticolociti immaturi (IRF) è basata sul contenuto di RNA reticolocitario [37], utile per valutare l’attività eritropoietica midollare.

Conclusioni

L’anemia è una delle più importanti complicanze della MRC, presente nella quasi totalità dei pazienti.

Tutte le linee guida concordano sulla frequenza periodica del controllo della concentrazione di Hb in base al grado di IRC e di anemia acquisita, ma sottolineano la necessità di differenziare il percorso secondo la clinica presentata dal paziente. Infatti, la diagnosi differenziale del tipo di anemia nel nefropatico è spesso complicata dalle numerose concause, che sopraggiungono nel paziente critico, e non si limita al solo deficit di eritropoietina.

La possibilità di analizzare parametri eritrocitari tradizionali (MCV, HCT, Hb, RBC, RET, IRF) e di nuova generazione (emoglobina reticolocitaria ed emazie ipocromiche) orienta pragmaticamente verso il tipo di anemia, con una stima anche della risposta alla terapia marziale ev.

La TSAT (saturazione della transferrina), la ferritina e la percentuale di eritrociti ipocromici sono i test attualmente più efficaci per determinare lo stato del ferro, sebbene nessuno di essi sia un perfetto indicatore.

I progressi scientifici e tecnologici della Medicina di Laboratorio permettono oggi un follow-up del paziente con anemia in corso di MRC non più statico ma dinamico e rivolto alla personalizzazione delle cure.

L’anemia nel paziente nefropatico, quindi, resta una condizione patologica estremamente delicata da indagare, dati i molteplici fattori, sia organici che farmacologici, che ne sono alla base. Il Laboratorio, con l’evoluzione scientifica, le nuove tecnologie applicate, i sincretismi analitici e l’appropriatezza delle indagini, mette a disposizione del clinico tutte le armi per una medicina sempre più personalizzata, che tenga conto delle diversità genetiche, sociali e ambientali, e che guardi verso diagnosi e terapie ottimali per ogni individuo [42]. Oggi, sempre di più, è vincente la collaborazione tra clinica e Laboratorio per un interscambio di informazioni con un comune obiettivo: migliorare la qualità di vita del paziente nefropatico.