Introduzione

Le fratture sovracondiloidee di femore rappresentano una condizione patologica fortunatamente rara ma decisamente molto severa. La loro frequenza complessiva è pari allo 0,4% di tutte le fratture e al 3% delle fratture di femore [1]. Esse presentano una tipica distribuzione bimodale, con un primo picco nei soggetti giovani di sesso maschile (30 anni). Nel primo gruppo, l’evento è attribuibile a un trauma a elevata energia, mentre nel secondo caso trattasi di una caduta accidentale in ambiente domestico [1]. Ad oggi, si assiste a un notevole incremento di tali eventi fratturativi nei soggetti di età avanzata prevalentemente di sesso femminile, con un’età media pari a 61 anni; in più del 50% dei casi, infatti, il paziente ha età superiore ai 65 anni [1].

Appare opinione condivisa la necessità di stabilizzare chirurgicamente tali fratture, essendo presenti, in questo distretto, gruppi muscolari estremamente dinamici nonché forze di carico notevoli che conferiscono loro notevole instabilità.

Il trattamento conservativo è di rara indicazione, riservato a pazienti con ridotta autonomia motoria, ovvero in fratture composte e relativamente stabili.

Tali fratture rappresentano un evento severo nei soggetti di età avanzata, di portata paragonabile alle fratture di femore prossimale riguardo alla morbilità. La mortalità a 30 giorni, a 6 mesi e un anno risulta pari, rispettivamente, al 6, 17–18 e 18–30%; a 5 anni essa raggiunge valori pari al 48% [25]. È stato dimostrato che un ritardo nel trattamento chirurgico maggiore ai 4 giorni è associato a un incremento della mortalità a 6 e 12 mesi di follow-up [3]. I fattori di rischio connessi a tali risultati appaiono condizioni di demenza senile, patologie cardiologiche e renali [6].

I risultati appaiono sovrapponibili a quelli osservati per le fratture di femore prossimale; tuttavia, ad oggi, manca un percorso ben definito di gestione e trattamento rispetto a tale condizione, a differenza di quelli tracciati e messi in atto per le fratture di femore prossimale; l’attenzione degli autori è ancora rivolta principalmente agli aspetti biomeccanici e di fissazione di tale condizione patologica. Le opzioni chirurgiche appaiono le più disparate, dalla chirurgia aperta con placche dedicate periarticolari, all’inchiodamento endomidollare, alle tecniche MIPO, fino alla fissazione esterna. Manca, tuttavia, un consenso rispetto sia al tipo di trattamento che alla gestione postoperatoria di tale condizione.

Implicazioni anatomiche

Le fratture di femore distale coinvolgono la metafisi e i condili. L’asse anatomico del femore è orientato di circa 8–10° lateralmente rispetto all’asse di carico; pertanto, le forze di carico agenti sull’arto inferiore si traducono in forze di bending a livello del femore, compensate principalmente dalla bandelletta ileo-tibiale [7]. La conoscenza di tali forze deformanti appare fondamentale al fine di comprendere e applicare i principi di trattamento delle fratture che occorrono in tale distretto anatomico.

Difatti, le deformità caratteristiche appaiono accorciamento e deformità in varo del segmento con estensione pressoché costante alla componente articolare [8]. L’accorciamento deriva dall’azione dei gruppi muscolari degli ischio-crurali e del quadricipite femorale.

La deformità in varo deriva, invece, dall’azione degli adduttori dell’anca e dal gastrocnemio, agenti in direzioni opposte. Il trattamento della frattura deve dunque considerare attentamente l’azione deformante di tali gruppi muscolari [9].

Un altro aspetto anatomico critico è rappresentato dall’aspetto della porzione distale del femore: in sezione assiale il segmento articolare presenta una forma trapezoidale; i bordi mediale e laterale dei condili femorali convergono in senso ventrale di circa 15–25°; le linee articolari anteriore e posteriore non risultano parallele. Il posizionamento di un impianto deve dunque mirare al ripristino di tale disegno anatomico e la scelta della lunghezza appare di fondamentale importanza. Una riduzione inadeguata può condurre, quindi, a scomposizione in senso antero-posteriore, medializzazione e rotazione esterna dei condili femorali con conseguente incongruenza articolare e posizionamento intra-articolare delle viti [10].

Un altro problema estremamente comune riguardando all’età media in cui tali fratture occorrono (61 anni) è la qualità dell’osso; l’osteoporosi può infatti rendersi responsabile di problematiche relative alla fissazione e stabilità degli impianti [11].

Spesso coesistono lesioni ligamentose e meniscali; circa nello 0,2% dei casi si presentano lesioni a carico dell’arteria femorale o poplitea con compromissione della vascolarizzazione a valle legata alla scarsa quantità di circoli collaterali presenti in questo distretto anatomico [8, 9].

Valutazione clinica

Una valutazione puntuale del meccanismo d’azione traumatico, la valutazione di lesioni sistemiche e locali associate e lo studio del pattern fratturativo rappresentano gli elementi da considerare nell’approccio al paziente.

Nei traumi ad elevata energia sarà necessario considerare l’eventualità di lesioni associate a carico di altri distretti osteo-articolari nonché ad altri organi.

L’applicazione del protocollo ATLS è mandatorio in questo tipo di traumi.

La valutazione continua delle condizioni vascolo-nervose dei distretti a valle della frattura è necessaria, al fine di escludere la comparsa di problematiche quali in particolare la sindrome compartimentale e lesioni arteriose.

In caso di fratture esposte, la copertura antibiotica entro 6–8 ore riduce il tasso di infezione.

Le fratture esposte di grado I e II di Gustilo devono essere trattate con profilassi antibiotica di copertura per batteri gram-positivi. In caso di fratture di grado III di Gustilo è necessario aggiungere una copertura anche per i gram-negativi [12]. La profilassi antitetanica è altrettanto raccomandata in regime di urgenza.

In genere, le fratture ad elevata energia con compromissione dei tessuti molli richiedono un trattamento precoce comprensivo di debridement dei tessuti, release dei compartimenti, fissazione esterna temporanea a ponte. Generalmente, a questa prima fase fa seguito un’indagine strumentale più accurata comprensiva di studio TC al fine di pianificare il successivo trattamento chirurgico definitivo. L’identificazione di rime di frattura sul piano coronale, nella maggior parte dei casi a carico del condilo femorale laterale, appare sottostimata con il solo studio radiografico standard, rendendosi tali rime evidenti solo allo studio TC [13].

In alcuni casi risulta indicato lo studio tramite RM; ciò permette di evidenziare lesioni ligamentose a carico delle strutture meniscali, condrali del ginocchio, ovvero a carico del nervo peroneale.

Nel caso sussistano dubbi relativi alla compromissione di strutture vascolari appare indicato il ricorso a metodiche quali angiografia, ecodoppler, angioTC, ricordando che la presenza di polso periferico non esclude la presenza di lesioni vascolari.

Classificazione

La classificazione AO di Muller [14] è quella maggiormente utilizzata per le fratture sovracondiloidee di femore. Neer et al. [15], Seinsheimer [16], ed Egund e Kolmert [17] hanno proposto criteri classificativi che, tuttavia, non vengono ampiamente adottati. D’accordo con i principi generali del Sistema Classificativo AO, le fratture tipo A sono quelle extra-articolari, le tipo B sono le parzialmente articolari, ovvero quelle in cui parte della superficie articolare rimane in contatto con la diafisi. Le fratture tipo C sono quelle che coinvolgono la superficie articolare nella sua interezza, separando entrambi i condili dalla porzione diafisaria.

Tali tipi fratturativi risultano ulteriormente distinti in base al grado di frammentazione e ai pattern fratturativi.

Principi di trattamento

Il trattamento conservativo può essere riservato ai rari casi di fratture senza o con minima scomposizione, in particolare in pazienti allettati ovvero le cui comorbidità controindichino il trattamento chirurgico. Il trattamento conservativo consiste, dunque, in posizionamento di trazione transcheletrica o, in alternativa, immobilizzazione in tutore con mobilizzazione progressiva e carico sfiorante tutelato.

Il follow-up radiografico e clinico è imperativo, con controlli settimanali-quindicinali per le prime sei settimane.

Il trattamento chirurgico è indicato in fratture scomposte e instabili, fratture esposte con o senza compromissione vascolo-nervosa. In tal caso, si ricerca una riduzione anatomica della superficie articolare con ripristino della lunghezza e rotazione dell’arto; la fissazione deve essere stabile in modo da consentire una mobilizzazione articolare precoce. In tal modo, sarà possibile ridurre il rischio di degenerazione artrosica precoce ovvero la rigidità da retrazione dei gruppi muscolari e da fibrosi. In caso di lesioni nervose, il trattamento microchirurgico può essere differito a processo di guarigione ossea raggiunto.

La gestione delle lesioni meniscali e ligamentose dipende essenzialmente dal tipo di approccio chirurgico; nel caso in cui si renda necessario un accesso artrotomico per la riduzione dei frammenti articolari, anche le strutture meniscali e i legamenti possono essere trattati in acuto; tuttavia, l’intervento differito appare contemplato in letteratura [18].

Ad oggi appaiono numerose le opzioni chirurgiche di trattamento: osteosintesi a cielo aperto o in MIPO con placche e viti; inchiodamento endomidollare; fissazione esterna. Quest’ultima ha assunto negli ultimi decenni un ruolo importante nella gestione di tali lesioni in regime di urgenza, nei pazienti politraumatizzati o in caso di fratture esposte definendola, dunque, come fissazione esterna temporanea. Meno comune l’utilizzo della fissazione esterna come trattamento definitivo, almeno per quanto riportato in letteratura, ove si riconoscono solo casistiche personali con numeri ridotti, studi di tipo retrospettivo, mancando metanalisi e studi prospettici e di coorte.

FE temporaneo

Il trattamento delle fratture sovracondiloidee di femore con FE temporaneo, meglio definito come trattamento differito o in due tempi, appare indicato in presenza di trauma con interessamento dei tessuti molli (edema, ecchimosi, flittene). Nel caso di fratture esposte la fase di debridement deve precedere la fissazione e, preferibilmente, essere praticato a distanza di alcune ore.

La tecnica chirurgica di inserimento delle viti è quella standard che prevede il rispetto dei corridoi di sicurezza a livello del femore e della tibia [19]. Anche in questo caso è importante far precedere all’inserimento della vite la fresatura al fine di evitare la necrosi termica dell’osso e dei tessuti molli limitrofi. Le viti vanno inserite lontane da quelle che potrebbero essere le sedi di posizionamento dei mezzi di sintesi definitivi.

Nel caso di paziente emodinamicamente instabile, la fissazione esterna temporanea ha come unico obiettivo quello di mantenere la lunghezza dell’arto contribuendo a ridurre la sofferenza di strutture vascolo-nervose vicine e le perdite ematiche dal focolaio di frattura. In caso di paziente emodinamicamente stabile, invece, si può perseguire un allineamento tridimensionale della frattura tramite la sola ligamentotassi.

Il FET va tenuto in sede per 7–10 gg e, comunque, fin quando le condizioni dei tessuti molli risultino migliorate, rendendo più sicura la sintesi definitiva. In alcuni casi, elementi del FET possono essere mantenuti durante la fissazione definitiva al fine di agevolare la riduzione e la sintesi.

Il costrutto capace di conferire la migliore stabilità consiste di due viti a livello della diafisi femorale (anteriore o laterale) e due viti sulla superficie anteromediale della tibia. Le viti verranno connesse, quindi, tramite un sistema di barre, variamente disposte a seconda della modularità del sistema. E del grado di instabilità di frattura.

Molto si discute rispetto al posizionamento delle viti a livello femorale; alcuni autori raccomandano la porzione anteriore della diafisi come quella da preferire, poiché non coinvolta nella sintesi definitiva; ciò, tuttavia, sembra associarsi a un insulto a carico dell’apparato estensore (quadricipite femorale) ovvero a un aumentato rischio di lesioni vascolo-nervose man mano che si procede in senso disto-prossimale. Il posizionamento laterale delle viti, sebbene più scuro, contamina la sede di un’eventuale sintesi con placca. Riteniamo che la scelta vada fatta in base all’esperienza del chirurgo, in particolare nel tipo di trattamento che predilige nella seconda fase.

Il ruolo importante della FET e, dunque, del trattamento in due tempi delle lesioni scheletriche nel politraumatizzato è ormai ampiamente condiviso e riportato in letteratura, in particolare per le fratture diafisarie di femore e del pilone tibiale [20, 21]. Manca tuttavia un’esperienza condivisa riguardo a fratture del femore distale e della tibia prossimale. I risultati riportati da Anand et al. [22] appaiono di notevole portata, con un tasso di guarigione del 91% e una drastica riduzione dell’incidenza di infezione, pari al 16%, rispetto a studi precedenti. Appare quindi necessario procedere in questo senso anche in questo distretto anatomico per migliorare i risultati e ridurre l’incidenza di complicanze severe e invalidanti.

Fissatore esterno come trattamento definitivo

Per quanto il trattamento temporaneo delle fratture sovracondiloidee di femore assuma un ruolo sempre più consistente nella pratica clinica, non si può altrettanto affermare riguardo all’utilizzo della fissazione esterna come trattamento definitivo.

Questa viene contemplata in caso di fratture esposte, perdite importanti di sostanza ossea, comminuzione importante del focolaio, danni vascolari, compromissione importante dei tessuti molli circostanti. I vantaggi attribuibili a tale metodica sono preservazione dell’ematoma di frattura e dell’apporto ematico ai frammenti ossei, ridotte perdite ematiche e dei tempi chirurgici.

I sistemi utilizzati comprendono quelli monolaterali non a ponte, i circolari e gli ibridi [23, 24]. Nel caso di fratture altamente instabili, l’utilizzo di un FE tipo Ilizarov o ibrido garantisce una migliore stabilità; la presenza dei fili con oliva divergenti consente una compressione valida a livello dei condili anche in presenza di osso osteoporotico (Caso Clinico, Figg. 1, 2, 3 e 4) [25].

Fig. 1
figure 1

(a, b) Frattura sovracondiloidea di femore AO-33 A3 in paziente obesa con pregressa frattura esposta pilone tibiale

Fig. 2
figure 2

(a–c) Controllo clinico e Rx postoperatorio

Fig. 3
figure 3

(a, b) Controllo a 3 mesi

Fig. 4
figure 4

(a–c) Controllo cllinico e Rx post-rimozione FE a 4 mesi

Le complicanze più comunemente riportate includono osteomieliti, infezione dei tessuti molli secondariamente a contaminazione delle viti, artriti settiche, perdite di riduzione, ritardi di consolidazione e pseudoartrosi, compromissione dell’articolarità del ginocchio secondarie ad artrofibrosi [26]. I tempi di guarigione dell’osso richiedono un minimo di 25 settimane [23]. Zlowodzki et al. [27] hanno riportato un’incidenza del 7,2% di non union, dell’1,5% di fallimento di sintesi, del 4,3% di infezione profonda, e del 30,6% di revisione della sintesi. Tuttavia, la maggior parte degli studi presenti in letteratura citati sono provvisti di casistiche ridotte, prevalentemente fornite da singoli chirurghi.

Indipendentemente dal tipo di costrutto utilizzato, la fase di riduzione prevede dei mini-accessi e la sintesi con viti cannulate a livello della porzione articolare; seppure, infatti, la ligamentotassi rappresenti il principio di riduzione nell’applicazione di un fissatore esterno, in caso di fratture che coinvolgono la superficie articolare, può essere indicato il ricorso a una riduzione a cielo aperto [25]. Il successivo allineamento del frammento articolare e della metafisi alla diafisi si ottiene tramite il posizionamento del fissatore esterno. Il paziente è posizionato supino, preferibilmente con l’arto inferiore in trazione (a livello della tibia) e il ginocchio flesso di 45–60°. La flessione del ginocchio agevola la fase di riduzione detensionando la fascia lata. In caso si applichi un FE assiale, verranno posizionate 2–3 viti da 6 prossimalmente e 2 viti nel frammento distale. Il corpo del fissatore utilizzato sarà in genere uno small o standard.

In caso di FE ibridi e circolari si utilizza un filo di Kirschner da 1,8 mm transcondilico, parallelo alla superficie articolare. Due fili con oliva divergenti vengono posizionati attraverso i condili con direzione da anterolaterale a posteromediale e da anteromediale a posterolaterale; ciò garantisce un’ottimale compressione dei frammenti e stabilità del focolaio. Gli anelli utilizzati per incorporare i fili variano da 180 a 240. In alcuni casi può essere necessario posizionare un anello accessorio 4–5 cm al di sopra della frattura. Ultimata la configurazione dell’anello distale, sarà necessario tensionare e serrare i fili. A questo punto, una serie di barre e connettori permetteranno di ancorare gli anelli distali alla porzione prossimale del fissatore costituita in genere da 2–3 viti e, eventualmente, da anelli.

Nel caso risulti necessario ottenere una fissazione ulteriormente stabile, il costrutto può essere esteso oltre il ginocchio alla tibia prossimale preservando parte dell’articolarità del ginocchio tramite degli snodi. La componente tibiale potrà essere rimossa a 6 settimane in regime ambulatoriale.

A tal punto, la riduzione della frattura viene controllata in scopia ed eventuali difetti di allineamento corretti agendo sui raccordi del costrutto. Infine, tutti i raccordi vengono bloccati e si procede a un controllo radiografico postoperatorio.

All’intervento chirurgico fa seguito un periodo di attento monitoraggio clinico e radiografico. La fissazione esterna richiede, infatti, una gestione attenta da parte del medico e una collaborazione piena da parte del paziente. La fisioterapia è indicata fin dai primi giorni postoperatori; la mobilizzazione precoce è fortemente incoraggiata al fine di ridurre l’incidenza di rigidità in flessione del ginocchio e di artrofibrosi. A tal proposito, appare necessario posizionare i fili articolari con il ginocchio in posizione moderatamente flessa, in accordo con la tecnica originale descritta da Ilizarov, allungando così l’apparato estensore del ginocchio [28].

A sei settimane si procede, in genere, alla concessione del carico parziale, i cui incrementi progressivi vengono raccomandati in base ai riscontri radiografici relativi al processo di guarigione che, in genere, appare completo non prima di 30 settimane. Il paziente viene ad ogni modo controllato ogni 2–3 settimane; in alcuni casi, può rendersi necessaria una revisione della sintesi con correzioni dell’allineamento e sostituzione di fili secondariamente a infezione degli stessi.

La gestione ottimale delle fratture sovracondiloidee di femore rimane ad oggi ricca di controversie. Seppure gli autori raccomandino il trattamento chirurgico nella maggior parte dei casi, non esiste altrettanto consenso rispetto alle diverse metodiche cruente disponibili, condizione ascrivibile all’elevata incidenza di complicanze e di fallimenti che si realizzano indipendentemente dalla tecnica utilizzata. Appare opinione condivisa da molto tempo quella relativa all’utilizzo della fissazione esterna temporanea come presidio utile e valido in particolare nel trattamento delle fratture esposte e del paziente politraumatizzato [29].

Seligson tra i primi ha validato l’utilizzo del Sistema di allungamento di Wagener nella gestione delle fratture esposte; a suo avviso, tale approccio consente un maggior rispetto dei tessuti, agevolando la ripresa della deambulazione [30]. La tecnica di Ilizarov è da sempre considerata una valida opzione, seppur gravata da difficoltà tecniche e gestionali limitanti ovvero a un’elevata incidenza di complicanze [31].

Da un confronto dei risultati ottenuti con diversi mezzi di sintesi, si osserva che la fissazione esterna come trattamento definitivo si attesta alla pari rispetto a tecniche ORIF quali placche DCS e lama-placca [32]. Danziger et al. e Siliski riportano risultati migliori con l’utilizzo rispettivamente di chiodi endomidollari e lama placca condilica [33, 34]. Tuttavia, è importante sottolineare che la maggior parte delle fratture trattate con fissatori esterni sono anche quelle provviste di maggiore gravità, essendo spesso caratterizzate da notevole perdita di sostanza ossea e da esposizione con elevato rischio di contaminazione. La scelta della fissazione esterna come metodica di trattamento nelle fratture del terzo distale di femore appare avvalorata da alcune caratteristiche anatomiche proprie di questo distretto; a livello del femore distale la corticale ossea appare sottile e il canale midollare ampio con notevole rappresentazione di osso spongioso. Il frammento distale è inoltre spesso di dimensioni ridotte e a più frammenti. La vicinanza del focolaio al ginocchio e, dunque, a un distretto dotato di notevole articolarità, contribuisce a rendere la frattura instabile e soggetta a scomposizione. L’utilizzo di un fissatore esterno, particolarmente di uno ibrido, magari a ponte, garantisce una migliore stabilità. Rispetto a tecniche ORIF, la dissezione a carico dei tessuti molli e la deperiostizzazione è notevolmente ridotta, anche qualora si rendano necessari mini-accessi ausiliari ai fini di migliorare la riduzione [34]. Anche i chiodi endomidollari preservano tali aspetti; tuttavia, l’alesaggio prossimale spesso necessario, compromette la vascolarizzazione endostale, ritardando il processo di consolidazione [33]. Il rischio di infezione è una delle problematiche più importanti e discusse rispetto alle fratture del femore distale, trattandosi di trauma a elevata energia con frequente esposizione ossea e compromissione dei tessuti molli. La deperiostizzazione, la dissezione dei tessuti, i lunghi tempi operatori, condizioni tipicamente associate alle tecniche ORIF, possono contribuire a incrementare i rischi di contaminazione. Alcuni studi hanno riportato un incremento decennale pari a circa il 6% di insorgenza di tali complicanze, quasi certamente attribuibile all’aumentato ricorso alle tecniche ORIF [33, 34].

I fissatori esterni hanno la possibilità di garantire un allineamento ottimale anche in presenza di zone di comminuzione importante e di perdita ossea. Inoltre, essi consentono di procedere con tecniche di allungamento tramite semplici aggiustamenti in itinere del costrutto iniziale.

Conclusioni

In base ai risultati riportati in letteratura e alla nostra esperienza, le indicazioni alla fissazione esterna come trattamento definitive delle fratture sovracondiloidee di femore appaiono: comminuzione importante del focolaio che comprometta la buona riuscita di tecniche ORIF; fratture in osso osteoporotico; fratture esposte o comunque con notevole sofferenza dei tessuti molli, pazienti politraumatizzati. La fissazione esterna ibrida fornisce, in particolare, un’ottimale stabilità, contribuendo a un processo precoce di riabilitazione e, dunque, promuovendo la guarigione. Rimane tuttavia evidente la complessità della tecnica, che va rispettata nei suoi principi biomeccanici ai fini di ottenere risultati ottimali.

Sebbene le fratture sovracondiloidee che non coinvolgono la superficie articolare (AO/ASIF A3) possano essere trattate con tecniche di riduzione a cielo chiuso, un approccio mini-invasivo e una sintesi ibrida con viti cannulate può risultare necessaria in caso di fratture con coinvolgimento intra-articolare e comminuzione severa (AO/ASIF C2 e C3). In questo gruppo di fratture, peraltro, i vantaggi della fissazione esterna consistono nel ridotto traumatismo dei tessuti molli e del sanguinamento, nella ripresa precoce della deambulazione parziale, possibilità di operare correzioni progressive sul processo di guarigione, gestione ottimale dei tessuti molli, riduzione dei costi e dei tempi di degenza ospedalieri.

In mani esperte, tale approccio appare una tecnica valida e ad oggi estremamente attuale che necessita, tuttavia, di maggiore consenso, possibile solo se agli studi attualmente presenti facciano seguito casistiche qualitativamente e quantitativamente autorevoli.